Ripensando a In Treatment mi viene da riflettere su come sia una serie in cui si può non solo gettare uno sguardo sul lato nascosto e privato delle vite dei suoi protagonisti - i clienti di Paul Weston, psicanalista interpretato da un ineffabile Gabriel Byrne - ma anche sul lato nascosto e privato della scrittura di film e serie TV.
I pazienti che si avvicendano puntata dopo puntata sono infatti facilmente riconducibili a quegli archetipi già visti mille altre volte e con mille altri volti: la femme fatale, il militare tutto d'un pezzo, l'adolescente insicura (interpretata da una strepitosa Mia Wasikowska, qui al suo debutto USA)...
Tutte figure la cui psicologia siamo abituati a intuire nelle pieghe delle trame e degli intrecci, ma che qui vengono invece costantemente e inesorabilmente messe faccia a faccia con sé stesse, nell'ambiente chiuso, ovattato e senza vie di fuga dello studio del protagonista, location quasi esclusiva degli episodi.
Una serie in cui dunque i personaggi "fanno" poco, ma "sono" molto, in cui il loro essere in effetti è, per una volta, il centro di tutto, e non solo una sfumatura con cui colorare storie e dialoghi. Un esperimento dal gusto teatrale, realizzato in maniera raffinata e profonda: probabilmente non adatto a tutti, ma non mancherà chi lo adorerà...
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